Il Consiglio di Stato, Sezione Seconda, con la sentenza n. 3165 del 18.05.2020 si è
espresso in materia di esternazioni critiche rivolte dal militare verso l’Istituzione di
appartenenza.
L’occasione della pronuncia è scaturita da un appello proposto dal Ministero della
Difesa contro una sentenza della Prima Sezione del Tar Lazio, che aveva accolto il
ricorso di un militare che contestava il provvedimento con il quale era stata
confermata la sanzione disciplinare della consegna per avere saltato la catena
gerarchica, avendo inviato una lettera critica nei confronti di alcuni superiori
direttamente al Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri.
A favore della consegna irrogata si è pronunciata, in secondo grado, la commissione secondo cui il militare che intenda rivolgere ai vertici della propria Istituzione considerazioni critiche attinenti alla gestione del servizio deve sempre seguire la linea gerarchica, incorrendo in caso contrario in una violazione disciplinare.
Fin qui nulla di strano, se non che, secondo detta pronuncia, tale condotta resta
punibile come fatto in se, anche nel caso l’interessato abbia manifestato le sue
rimostranze quale rappresentante sindacale o, più genericamente, “parasindacale”,
di un’associazione lecitamente costituita.
La Sentenza richiama i diritti associativi rivenienti nell’art. 39 della Costituzione –
definito punto di approdo di una condivisibile rivendicazione di categoria degli
appartenenti alle Forze armate – riconosciuti dalla sentenza 13 giugno 2018, n. 120
della Corte costituzionale, di declaratoria dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare),
Pur riconoscendo la necessità di attualizzare il contesto ordinamentale in materia di
diritto associativo dei militari e la neutralità del ruolo di segretario dell’associazione, il Consiglio ritiene, però, che rilevi la condotta “materiale” di invio della comunicazione, prescindendo dal contenuto, senza rispettare la linea gerarchica e, quindi, secondo criteri oggettivi dell’addebito, che resta centrato sul metodo e non sul merito della vicenda.
Orbene gli Stati Maggiori delle Forze Armate e delle Forze di Polizia a ordinamento
militare ammettono quale unica forma di interlocuzione per le associazioni sindacali quella a livello centrale, per cui appare oscuro comprendere, in tal guisa, a chi si debba rivolgere il rappresentante sindacale nel rispetto della linea gerarchica.
Le regole che il militare deve osservare derivano dai principi organizzativi tipici della
struttura del corpo di appartenenza, qualificando in modo necessario il rapporto di
impiego del comparto dell’amministrazione, quali la gerarchia, l’obbedienza, la
prontezza, la coerenza interna e la compattezza.
A fronte di tali criteri, fanno da contraltare le limitazioni nell’esercizio di alcuni di essi insieme all’osservanza di particolari doveri al fine di garantire l’assolvimento dei
compiti propri delle Forze Armate.
Tra questi il corrispondente «dovere di difesa della Patria», di cui all’art. 52, primo
comma, della Costituzione, originario e fondamentale dovere di cittadinanza, poichè
con esso – «specificazione del più generico dovere di fedeltà alla Repubblica e di
obbedienza alla Costituzione ed alle leggi» di cui all’art. 54 della Costituzione –
s’intende preservare l’assetto costituzionale che definisce la Patria repubblicana.
La necessità imprescindibile di tutelare la Costituzione comporta che sia prevista la
compressione delle tutele di natura individuale per colui chiamato ad assicurare la
difesa della Patria, ma ciò non è prerogativa dei soli militari ma di tutti i cittadini.
Tant’è che al primo comma dell’art. 1465 del C.O.M. sono riconosciuti, anche, ai
militari i diritti che la Costituzione attribuisce ai cittadini, a superamento delle logiche dell’ordinamento militare.
Diritti che debbono esplicarsi nella più ampia libertà di associazione affermata
dall’articolo 18 della Costituzione e che non può prescindere dal rispetto dei principi
fondamentali di dignità sociale e di manifestazione di libero pensiero, previsti
rispettivamente dagli articoli 3 e 21 della stessa Carta Costituzionale.
Diritti limitati, a priori, in ragione di una prospettata e indifferenziata “specificità del comparto”, senza operare la distinzione tra i diritti soggettivi e gli interessi legittimi del militare.
In ragione dello status militis, solo gli interessi legittimi possono affievolirsi di fronte alle esigenze dell’amministrazione, mentre non possono essere contratti i diritti soggettivi che, per loro natura, sono incedibili, incomprimibili, insopprimibili e non negoziabili.
Orbene la manifestazione del proprio pensiero, espresso nell’ambito dell’esercizio
dell’attività sindacale, diretto al superiore gerarchico è non solo lecito ma garantito
dalla costituzione quale principio fondamentale.
Una siffatta fattispecie afflittiva, tanto più se adottata nella generale limitazione
dell’unica forma di interlocuzione al momento riconosciuta a livello centrale ma
negata allo stesso tempo dalla Sentenza de quo, appare quanto meno retorica.
Un ossimoro che è la raffigurazione dell’attuale contraddizione in cui sono collocate
le associazioni sindacali militari: libertà di costituzione ma negazione dell’azione sindacale.