“L’impressione che provava ora era simile a quella che proverebbe un uomo il quale, mentre cammina fiducioso su un ponte gettato sopra un abisso, vedesse a un tratto quel ponte crollare e l’abisso spalancare la sua voragine sotto di lui. L’abisso era la vita vera; il ponte, la vita falsa ch’egli aveva sempre vissuta”
Anna Karenina – Tolstoj
Guardo, osservo, annuso la vita e frammenti di quotidianità attraverso lo schermo dello smartphone, un po’ come succede a tutti in questo periodo. Ho letto con un amaro sorriso di un post che ricordava, con una sorta di penosa malinconia, i bei tempi del Grande Raccordo Anulare di Roma intasato dal traffico, la memoria di ruote tese sull’asfalto in attesa di ripartire. Eppure, quell’attesa densa della nostra fretta rappresentava la vita, fatta di movimento di pensieri e una fievole illusione di vitalità per gli impegni prossimi, che già affollavano la mente sin dal risveglio.
Oggi invece facciamo i conti con la “prepotente impotenza” di questi giorni, con il collasso di tutto ciò a cui eravamo abituati; tutti eventi che sembrano insegnarci la caducità della vita. Una lezione appresa sulla nostra pelle, increspata da mille paure. Passando, come società, dal non avere “paura di niente” all’avere “paura del niente”, inteso come la fine di tutto ciò che conosciamo, cui eravamo assuefatti, abbiamo dovuto fare i conti con il futuro. Torneremo ad abbracciarci, a viaggiare: sicuramente sì. L’uomo ha saputo nel corso della sua evoluzione inventare mille modi per stare vicini (altrettanti per stare lontani); ma lo faremo veramente allo stesso modo?
La frustrazione per non poter essere accanto ai nostri genitori, figli, amici, il dolore per le perdite che si sono susseguite ad un ritmo esponenziale e imprevedibile, sono condizioni che hanno generato in noi una rabbia comprensibile che non trova però interlocutori fisici di prossimità. La privazione della libertà di essere, divenire, la possibilità di poter progettare un futuro, che diviene via via sempre più difficile da immaginare, resta una delle più grandi disillusioni di questa società che prometteva l’immortalità attraverso il moto perpetuo delle faccende quotidiane. Non è forse un po’ questo che stiamo vivendo simile a quello che vivono le persone molto anziane? Quello sguardo profondo e lucido al loro passato fatto di affetti, di comunità solidali post-guerra, di ginocchia sbucciate, mentre l’occhio al futuro diviene sempre più in-certo?
L’assenza di libertà sembra quindi tradursi in questo senso di sospensione del tempo, piuttosto che nella ristrettezza degli spazi; nell’attesa di riprendere in mano i nostri desideri e farli fluire proiettandoli in un futuro tessuto da sogni coltivati nei campi della speranza e del possibile.
Gli effetti di queste paure ontologiche (umane e sin troppo umane), sembrano manifestarsi sotto forma di nevrosi collettive, in forme di psicosi con paranoie e idee di riferimento, pensiero magico, in modalità di funzionamento da cuoco ossessivo compulsivo; tutti impegnati a ricreare quegli ingorghi stradali, a “trafficare” con le proprie idee, in cucina o chissà dove.
Non sono forse un po’ magiche le idee che narrano di un virus nato dall’intruglio di pipistrelli, una pandemia che arriva da lontano, da terre sconosciute. Non è forse bizzarro il ritiro schizoide di alcune persone che vediamo muoversi come ombre furtive attraverso le porte blindate per tirare dentro la spesa portata a casa da un fattorino; senza contare le persone che hanno smesso di salutare per il timore di essere avvicinate. Non è alquanto nevrotico questo prodigarsi in giornate ricche di impasti, pizze, palestra fatta in casa, runners (che non hanno mai corso in vita loro) e via dicendo. Senza contare questo sano riscoprirsi (finalmente) orgogliosamente Italiani, frutto della necessità di “stringersi a coorte” nei momenti difficili, salvo ritornare a rinnovare le divisioni tra sud e nord, destra e sinistra, rosso e nero.
Certo occupare le giornate, scandire i ritmi, organizzare i tempi è doveroso in una società civile, oltre che rassicurante. La sensazione è però che a farci sentire male non sia veramente la mancanza di libertà, ma il suo eccesso. Oggi, ognuno di noi è chiamato a riappropriarsi di una quota importante del proprio tempo. Ad entrare in contatto con emozioni nuove che si cerca compulsivamente di dislocare in occupazioni altre. Emozioni che ci narrano ciò che viviamo oggi: il senso di impotenza dell’umanità, la cui razza, dopo aver padroneggiato il fuoco, aveva creduto possibile proseguire il suo cammino incessante verso il dominio della vita. Invece, oggi, siamo chiamati a prendere atto della sua finitezza. Questa è una importante possibilità per riprenderci veramente il nostro tempo, per ripensare e ricostruire un tessuto sociale che stava già operando una sorta di delocalizzazione fisica attraverso i social media, che non rappresentano certo il male, ma il fine di una società maggiormente propensa ad incontrarsi su piazza virtuali, da cui è possibile entrare e uscire senza bussare, in cui l’altro è a uso e consumo. Attraverso il senso di questa finitezza della vita è possibile ridare nuovo senso alla vita stessa. Porre una riflessione su cosa ci perdiamo quando ci diciamo, come in alcune narrazioni pubblicitarie di questi giorni, che due che mangiano una pizza davanti ad un pc è come se mangiassero allo stesso tavolo. Come se i monitor potessero sostituire il brusio di fondo, lo scuotere delle tovaglie, il galvanizzarsi della pelle nel contatto (ma anche nel quasi contatto) delle mani, la possibilità di offrire un po’ del nostro cibo come gesto di condivisione, il guardarsi veramente negli occhi e non dover fissare l’occhio cieco di una videocamera. Tutto questo ci è utile in questo momento difficile, perché è ciò che oggi ci possiamo permettere, ma ci è altrettanto utile per capire dove non dobbiamo andare: in un mondo fatto di gesti, affetti, relazioni a due dimensioni e dove prevale la perversa malinconia di strade troppo trafficate.