Il 25 aprile 1981 entrò in vigore la legge 121 di riforma dell’ex Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, che da militare diventò civile e nella quale fu introdotto il diritto al sindacato.
Era l’inizio degli anni ottanta, anni di violenza e di stragi, gli anni di piombo e di una criminalità incombente.
In quel difficile contesto un inaspettato cenno di rinnovamento positivo giunse dalla Pubblica Sicurezza, impegnata a far fronte all’emergenza criminale.
Un movimento democratico clandestino, sorto dalla base, fra le guardie e i sottufficiali, riuscì a condurre il corpo alla smilitarizzazione e alla sindacalizzazione.
L’Italia, fino ad allora, era il solo paese dell’Europa occidentale con un comparto polizia integralmente militare e privo di diritti sindacali.
Il punto di non ritorno nel cammino della Riforma si realizzò con la circolare n. 555/318 del 9 ottobre 1976 emanata dal Ministro degli Interni Francesco Cossiga che autorizzò il personale civile e militare della Pubblica Sicurezza a riunirsi in Comitati per esprimere liberamente giudizi e opinioni alla riforma del Corpo.
Analoghi fermenti apparvero anche in altre polizie come la Guardia di Finanza, ma non ebbero lo stesso esito.
Quarant’anni dopo la situazione è cambiata, l’Italia è un paese fondamentalmente più sicuro, anche se persistono mafia e corruzione.
Ciò che non è cambiato è la condizione dei diritti militari e, in particolare, il pieno riconoscimento delle associazioni sindacali, nonostante la storica pronuncia della Corte Costituzionale.
Il disegno di Legge riguardante le norme sull’esercizio della libertà sindacale dei militari, approvato lo scorso 22 luglio, com’era facile prevedere, continua ad essere un testo perverso che nega qualsiasi forma di libero esercizio sindacale ponendo limiti oggettivi e soggettivi vanificando la pronuncia della Consulta.
In ragione di una prospettata e indifferenziata “specificità del comparto” continuano a essere negati quei diritti fondamentali di libertà di associazione e di organizzazione sindacale, di dignità sociale e di manifestazione di libero pensiero, previsti nella Carta Costituzionale.
Sono lontani gli anni settanta e ottanta, e non perché siano trascorsi oltre quarant’anni, ma perché ancor più di allora è lontano il riconoscimento di quei diritti costituzionali attribuiti ai cittadini, affermati dallo stesso Codice dell’Ordinamento Militare.
E allora lo status militis, inteso quale scelta di vita ancor prima che scelta di lavoro, è condizione di esistenza la cui leggerezza diviene insostenibile.
26 luglio 2020
Fabio Perrotta